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Shavu‘ot

Una festa tra nomi e ricordi…

Il Mattan Torà, il dono della Torà sul Sinai, è certamente un tema centrale nella Torà. Il monte Sinai è ricordato come il luogo della rivelazione divina e della stipula del patto tra Dio e il popolo d’Israele, il luogo dell’ascolto degli ‘Aseret Hadiberot, le Dieci Parole (Esodo 19).

E’ dunque curioso il fatto che negli altri libri biblici, ci sia stata una sorta di riduzione del ricordo di questo fondamentale evento. Ci sono cenni in ‘Ezra e Nechemià (cap. 9:13: “Sei sceso sul monte Sinai a parlare con loro dal cielo”), nel profeta Malachy (cap. 3:22: “Ricordatevi della Torà di Mosè, mio ​​servo, che gli ho comandato sul monte Chorev, per tutto Israele, statuti e sentenze”, nel libro dei Giudici nella cantica di Deborah (cap. 5:4-5: “La terra tremò, anche i cieli gocciolarono…trasudano acqua le montagne davanti al Signore che era sul Sinai”) e nella cantica simile del Salmo 68. Questi pochi riferimenti, non solo indicano un dato – forse rilevante – per definire quanto sia radicato il ricordo della promulgazione del Decalogo nel resto della Bibbia ma, soprattutto, sollecitano una riflessione sul rapporto tra il dono della Torà sul Sinai e la festa di Shavu‘ot.

In tre dei cinque libri della Torà, appaiono i tre dei nomi della festa:

1. “Chag Haqatzir, la festa della mietitura, quella delle primizie dei tuoi lavori agricoli che avrai seminato nei campi…” (Esodo 23:16);

2. “Celebrerai Chag Shavu‘ot, la festa delle settimane, per le primizie della raccolta del frumento… (Esodo 34:22);

3. “Conterete per voi, all’indomani del sabato…sette settimane complete. Fino all’indomani del settimo sabato, conterete chamishym yom, cinquanta giorni…” (Levitico 23:15-16);

4. “E celebrerai Chag Shavu‘ot, la festa delle settimane, per l’Eterno tuo Dio…” (Deuteronomio 16:10).

E’ interessante notare come il verso del libro del Levitico, presenti i dettagli della festa senza fare menzione alcuna degli altri appellativi della festa. Tuttavia, quel verso, potrebbe costituire la fonte dell’origine di un altro nome, “Chag Hachamishym – festa dei cinquanta (giorni)”. E’ probabile che, anche per questo, Giuseppe Flavio chiami così la festa di Shavu‘ot: “…il cinquantesimo giorno, che è chiamato dagli ebrei ‘Atzartà” e che il Midrash affermi, commentando il verso “e convocherete in questo giorno… (Levitico 23:21), che “questo è il cinquantesimo giorno, il giorno in cui Israele è stato davanti al monte Sinai per ricevere la Torà”.

Dai maestri, Shavu‘ot è chiamata in due modi: “‘Atzeret, chiusura” e “Mattan Torà, dono della Torà”. Il nome ‘Atzeret è già menzionato nella Torà, ma non collegato con Shavu‘ot, è il nome del giorno di chiusura delle feste di Sukkot (“nell’ottavo giorno…è – ‘Atzeret – sacra riunione per voi…”; Levitico 23:36) e Pesach (“sei giorni mangerai pane azzimo e il settimo giorno – ‘Atzeret – vi sarà una riunione in onore dell’Eterno tuo Dio”; Deuteronomio 16:8).

La parola ‘Atzeret può dunque significare: 1. riunione, solenne assemblea; 2. chiusura, arresto, oppure, collegamento, aderenza.

Nel Talmud (Pesachim 68b) si discute per quali feste ci sia l’obbligo della gioia:

“Rabbì El‘azar sosteneva che tutti fossero d’accordo che di ‘Atzeret si debba gioire (attraverso la mitzwà del pranzo festivo; cfr. Rash”y in loco). Per quale motivo? Perché è il giorno in cui è stata donata la Torà”.

Rabbì El‘azar, allora, doveva aver ricevuto l’insegnamento che tra la festa di Shavu‘ot – chiamata anche ‘Atzeret – e il giorno del Mattan Torà, ci fosse una relazione che, tuttavia, non è stata espressa esplicitamente dalla Torà scritta.

Al riguardo si è interrogato Rabbì Yitzhaq ‘Arama (Zamora c. 1420 – Napoli 1494) nella sua opera filosofica alla Torà intitolato ‘Aqedat Ytzchaq:

“…perché non è scritto nella Torà che in questo giorno dobbiamo ricordare il dono e la ricezione della Torà come è stato poi trasmesso dai maestri attraverso quanto fissato nelle preghiere (nella preghiera della festa si aggiunge la frase “…la festa di Shavu‘ot, tempo in cui fu donata la nostra Torà”) e per la lettura della Torà di questo giorno (la parashà di Ytrò in cui si parla della promulgazione del Decalogo)? Perché il ricordo del dono della Torà non può essere circoscritto solo a un giorno o a un momento occasionale… ci si ricorda della Torà in qualsiasi giorno e in qualsiasi momento, com’è scritto: “Il libro della Torà non si allontanerà mai dalla tua bocca e vi mediterai giorno e notte (Giosuè 1:8)”.

Condividendo, forse, questa linea di pensiero, Don Ytzchaq Abravanel (Lisbona 1437 – Venezia 1508) ritiene che un collegamento diretto tra Shavu‘ot e il dono della Torà, in effetti, non ci sia. Egli scrive, nel suo commento alla Torà, che “Shavu‘ot è la festa della mietitura e la Torà non ha bisogno di un giorno per essere ricordata, perché è testimone per se stessa. Comunque, pur non essendoci alcun dubbio che la Torà fu data di Shavu‘ot, la festa non è stata comandata per questo ricordo”.

In sostanza, come ogni giorno dobbiamo ricordarci dell’uscita dall’Egitto, ogni giorno abbiamo il dovere di rinnovarci e accettare la Torà, dimostrando la stessa statura morale manifestata nel giorno in cui è stata donata ai nostri padri.

Tra le varie motivazioni portate per spiegare il perché il ricordo di questo evento fondante per il popolo ebraico si sia diradato nel testo biblico, c’è anche quella della colpa del vitello d’oro, commessa quaranta giorni dopo quel meraviglioso avvenimento. La rottura delle tavole del patto e l’uccisione dei peccatori furono la conseguenza di quella grave azione che Mosè, nel Deuteronomio (9:7-8), rievoca in questi termini: “Ricorda, non dimenticare mai quanto hai provocato l’Eterno tuo Signore nel deserto…avete provocato l’Eterno persino sul monte Chorev…”.

L’atto sacrilego compiuto nel luogo della rivelazione divina, gettò un velo d’ombra sul Mattan Torà e, di conseguenza, provocò la diminuzione di quella qualità spirituale che aveva contraddistinto i figli d’Israele ai piedi del monte Sinai.

Visto la vicinanza e la connessione tra questi due episodi, è forse lecito domandarci se l’uso di celebrare un Tiqqun (letteralmente “riparazione”; un formulario di brani biblici e di preghiere di supplica) la sera di Shavu‘ot (come usiamo fare a Padova alla fine della preghiera serale della vigilia), sia nato per espiare la colpa del vitello d’oro e per togliere quel velo d’ombra. E’ noto che l’origine del Tiqqun di Shavu’ot abbia avuto luogo presso i cabalisti del XVI secolo a Salonicco e Safed e che, da lì, l’uso di recitarlo si diffuse in diverse chaburoth (riunioni di studiosi mistici; a Padova c’era quella istituita da Moshè Chayym Luzzatto chiamata Mevaqshè Hashem – Ricercatori di Dio). Ma è altrettanto noto, che il motivo di questa istituzione sia legato a un’altra colpa dei figli d’Israele – come riferisce il Midrash (Shir Hashirim Rabbà 1:12:2) – quella di essersi fatti trovare ancora a dormire il mattino presto, all’arrivo del Signore. Per destarli, sono stati necessari i suoni fragorosi di tuoni e fulmini, trombe e corni di ariete (Esodo 19:16-17).

Nonostante questo Midrash sia considerato dai molti la fonte dell’uso di recitare il Tiqqun la sera di Shavu‘ot, alcuni studiosi ritengono che la storia del vitello d’oro possa avere anch’essa un serio collegamento con questo rito. Non solo, la colpa del vitello d’oro può forse essere considerata il motivo sia della diminuzione del ricordo dell’evento negli altri libri del Tanakh sia del celato collegamento con la festa di Shavu‘ot nella Torà.

Un’ultima considerazione: Shavu‘ot, la festa del dono della Torà, la festa senza una dovere particolare che la contraddistingua, vuole forse dirci che l’ebraismo può essere considerato vivo quando è vissuto con continuità di studio, di insegnamento della Torà e nell’osservanza delle mitzwoth. Il futuro sarà garantito quando la Torà sarà concretamente parte costitutiva di tutti i giorni della nostra vita e non “celebrata occasionalmente”, in eventi eccezionali in cui far convogliare tutta la nostra forza spirituale per poi esaurirla “solennemente” in quell’unico momento.

A tutti un caro Shabbat Shalom e Chag Sameach!


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